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In questo Paese così progredito, dove ogni cosa sembra essere regolamentata (e ciò pare fonte di sicurezza) a volte si rischia di restare stritolati; di limitare la propria evoluzione intellettiva e personale.
Tra i tanti temi che potrebbero fare al caso nostro, prendo qui in considerazione i due che mi sembrano più pervasivi, importanti ed influenti nella nostra quotidianità: la Salute e Dio.
Parto dalla salute che, nella nostra bella Italia, pare sia appannaggio solo della categoria medica.
Così siamo stati abituati: quando sentiamo qualcosa che non va nel nostro corpo, si corre o si chiama “il medico”.
A tal punto questo concetto è profondamente inserito nella concezione della nostra realtà, che lo stesso sostantivo “dottore”, pur essendo genericamente qualificativo di tutti coloro i quali acquisiscono una laurea, nel nostro Paese indica invece in prevalenza i “medici” che, al contrario, nel mondo anglosassone sono specificati dall’acronimo MD (Medical Doctor) per differenziarsi dagli altri laureati (PhD) Philosofy Doctor.
Il “dottore” (medico) sembra essere l’unico in grado di fornire risposte riguardo alla nostra salute e la medicina, l’unica vera “scienza” accreditata per trattare la malattia.
Io credo però che questo paradigma di pensiero porti con sé una serie di conseguenze limitanti.
Al primo posto, permettetemi di spezzare una lancia proprio in favore dei medici, dicendo che: sino a quando tutti continueranno ad investirli di tanta e crescente responsabilità, saranno sempre più costretti a trincerarsi dietro quell’approccio iper-diagnostico e difensivo, di cui oggi si caratterizza la medicina occidentale.
Se infatti andiamo dal medico di base per un “doloretto” all’addome ad esempio, scatta subito la compilazione delle richieste (così dette “impegnative rosse”) per compiere questo o quell’accertamento con cui, quanto meno, escludere ciò che non c’è (in termini tecnici si chiama “diagnosi differenziale”). Dopo queste esclusioni poi, sarà più agevole fare diagnosi: sia sul piano clinico che su quello medico legale.
Tale approccio però è alla base: sia del calvario che spesso si innesca nella vita di chi già soffre (appuntamenti, lungaggini, accertamenti molto spesso inutili per scoprire la vera causa del doloretto da cui s’era partiti); sia dell’infinito ampliamento della spesa sanitaria pubblica la quale sostiene il costo di una mole di indagini ed esami (spesso purtroppo, o fortunatamente, inutili) che sono davvero costosi per tutti.
La seconda conseguenza che discende da questo diffusissimo approccio ai problemi di salute, è la “parzializzazione” della salute stessa. Avendo come unico e prevalente riferimento il paradigma medico infatti, chiunque viva una situazione di malattia o disagio fisico, guarda al proprio corpo come se fosse del tutto distaccato: sia dalla mente che dall’ambiente nel quale vive.
Ecco quindi che la salute diventa un fatto “parziale” appunto, legato solo a quella specifica parte del corpo che, in quello specifico momento, non sta funzionando.
Non c’è l’abitudine ad allargare il pensiero e a chiedersi cosa possa aver portato quella parte del corpo a non funzionare. Non si è abituati a vedere il corpo in collegamento con i pensieri, lo stress, le abitudini di vita, gli orari di lavoro, i conflitti o le preoccupazioni familiari. Tanto meno si è abituati a considerare il corpo in connessione con fondamentali fattori ambientali quali l’alimentazione, i campi elettromagnetici in cui si è immersi, la qualità delle energie che caratterizzano i luoghi in cui spendiamo le nostre giornate. Tutto questo non ha cittadinanza quando si affronta la malattia nel nostro Paese e nella nostra cultura e così, il recupero della salute, non viene solo “richiesto” all’approccio medico (medicine, terapie, interventi chirurgici, ecc.), ma si può dire che venga proprio “delegato” ad altri (medici & Co. appunto).
La persona non resta, non si sente e non viene fatta diventare la principale responsabile della sua salute; permettendogli e permettendosi di vivere un paradosso e di deresponsabilizzarsi dal recupero di ciò che, per eccellenza riguarda sé stessi, come la salute!
Quest’ultimo atteggiamento (deresponsabilizzazione e delega) porta con sé un terzo aspetto limitante nei processi di terapia e guarigione. Mi riferisco qui all’assenza di considerazione per l’Anima.
Secondo una prospettiva spirituale più ampia sull’essere umano, la persona non è solo un corpo fisico frutto dell’insieme cellulare.
Il “sistema” organismo non risponde solo a parametri biologici e chimici ma, prima che a questi, riflette l’influsso di elementi psicologici ed energetici.
La persona che sta male nel corpo, di solito giunge a manifestare fisicamente il malessere solo dopo aver vissuto un prolungato conflitto psichico che, a sua volta, ha potuto esaurire le energie specifiche degli organi simbolicamente coinvolti in quel conflitto.
Pertanto il mio infarto, la mia gastrite e persino il mio ginocchio della lavandaia, testimoniano tutti una conflittualità precedente; che si potrebbe rintracciare leggendo simbolicamente quella malattia (piuttosto che limitarci a coprirla e ad annullarla con i farmaci). Nella fattispecie: un dolore affettivo importante (il cuore), la difficoltà ad accettare qualcosa accaduto nella nostra vita (lo stomaco) e la necessità di rendere meno doloroso l’adattamento verso qualcosa (il ginocchio, dato che le articolazioni rendono il nostro corpo modificabile e flessibile piuttosto che rigido).
Un approccio meno parziale alla malattia quindi, ci darebbe la possibilità di non “coprire” il messaggio che il nostro organismo (unità corpo/mente) ci sta inviando, e ci aiuterebbe addirittura a ritrovare il nostro giusto percorso di vita.
Ma “giusto percorso rispetto a cosa” potrebbe essere la domanda?
Ecco qui che, mantenendo la vita umana in una prospettiva spirituale, torniamo all’Anima.
E’ l’Anima ad incarnarsi con una missione da compiere; con il compito di apprendere e sperimentare una propria lezione di vita. Ed ecco quindi che, se manteniamo questo sguardo più ampio sulla vita umana, comprendiamo il messaggio della malattia: vero grido d’allarme lanciato dal corpo ogni volta che l’anima si allontana dal suo binario. Ogni volta che noi con le nostre scelte, i nostro atteggiamenti e le nostre condotte, ci discostiamo dalla direzione che la nostra Anima è venuta a sperimentare sulla terra, con il corpo fisico con cui ci identifichiamo.
Qui però si entra nell’altro grande tabù della nostra cultura. Ricordate il titolo? “Nessuno tocchi la salute e Dio”! E davvero può risultare molto rischioso inserire l’Anima come parametro di riferimento in un processo terapeutico, affermando che la guarigione è anzitutto un percorso spirituale!
Poco importa se anche la fisica quantistica, scienza tra le scienze, ha dimostrato l’esistenza concreta dell’Anima evidenziando il ruolo prevalente dei processi emotivi (campo elettromagnetico del cuore) rispetto a quelli cognitivi.
Poco importa anche se, quando la persona “guarisce” con il solo intervento medico ma senza una vera consapevolezza e un vero cambiamento personale, la malattia quasi regolarmente si ripresenta nella stessa forma o in una nuova modalità spesso più aggressiva della precedente.
Poco importa infine se, a poche migliaia di chilometri da noi, superati i nostri confini Nazionali, sia normale poter scegliere con libertà e legalità il modo per approcciare la propria malattia: unendo alla medicina non solo la psicologia, ma anche altre forme di terapie energetiche e spirituali che sono riconosciute e indagate da ricerche che ne testimoniamo la credibilità.
A poca distanza da noi la salute e Dio sembrano poter essere appannaggio di tutti coloro che vogliono portare il loro contributo per fare del bene: ivi compreso il benessere fisico.
Qui da noi invece il cammino è ancora difficile ma sembra già iniziato. L’importante sarà non rinunciare ad una prospettiva più ampia e tornare, ciascuno per sé, ad assumersi la responsabilità del proprio benessere. Informandosi e sentendosi liberi di ragionare e scegliere secondo la propria sensibilità, ciò che sentiamo meglio per noi quando ne abbiamo bisogno.
In questo modo, dandogli il giusto spazio che merita, l’Anima non potrà fallire.
Fabrizio ha detto:
Mi chiedevo che fine avessi fatto e forse l’immagine del tuo articolo offre una risposta.
Hai scritto cose che ritengo importanti e che mi fanno ricordare alcuni mali sociali e mi fanno capire che non tutto è disordine:
1) la malattia è, presso di noi ed attualmente, trattata come un effetto di un intervento per lo più esterno e comunque come qualcosa di diverso da noi, dal sé, spesso in senso eziologico, poi soprattutto in senso emozionale e profondo; contrariamente, in culture diverse (Cina, Giappone, India, culture locali sparse) la malattia è riferita allo squilibrio delle componenti dell’individuo, squilibrio anche esistenziale, energetico, nel rapporto con la e le divinità, o al rapporto complessivo con il mondo. Va ricordato anche che qui, precedentemente allo sviluppo positivo della scienza, ma anche al suo settorialismo, la malattia era considerata l’effetto di uno squilibrio fra gli umori: indipendentemente dalle competenze scientifiche, il pensiero di qualche secolo fa si spiegava il malessere riferendone il senso alla persona (e pure alla sua relazione con il mondo);
2) il medico rappresenta la figura in cui evacuare le parti non sé di se stessi, i sintomi, i malesseri, quelle cose che vorremmo fare cessare senza pensarci sopra. Pensiamo alla proposta: dottore sono preoccupato, sapesse quanto male sto avendo. E alla risposta classica: non si preoccupi (e lì capisci invece che ti devi preoccupare…). Tralascio qui di parlare dell’aspetto del potere, dell’asimmetria fra il medico che può mettere le mani sul corpo altrui e l’abbandono del paziente al medico, funzionale al permettere la diagnosi, l’intervento e quant’altro.
Beh ma dove sono i mali? I mali stanno esattamente nell’oggettivazione del malessere, nel farne una cosa non personale, esterna e non legata ala persona come un tutto, ma da portare al medico e di cui lui si occupa. Se ho male al ginocchio è perché ho sbattuto e ho rotto il menisco e non perché mi stresso il corpo facendo attività che non hanno senso rispetto al mio peso, alla mia età, alla mia posizione nel ciclo di vita in cui da cinquantenne pesante 90 chili per un metro e settanta vado a giocare a calcetto perché questo mi fa sentire giovane e finalmente riesco a stare un po’ con gli altri, all’assenza di cura di me stesso, etc.
Nel momento in cui posso mettere fuori di me i miei problemi e non riferirli a me, non mi occupo di me stesso, non mi so più ascoltare, non mi vedo. Su questo si basa anche il sistema di potere economico legato alla medicina e alla classe medica. Indipendentemente dall’efficacia. Basti pensare alla differente incidenza di parti cesarei in Italia rispetto ad altri Paesi comparabili. Qui tanti di più con proporzionale sostentamento di strutture e professionisti e complementari sofferenze da parte delle neo-mamme. Soffriranno un po’, ma quanti soldi fanno girare eh?
Sono pericolosamente d’accordo con la tua posizione quando dici che “E’ l’Anima ad incarnarsi con una missione da compiere; con il compito di apprendere e sperimentare una propria lezione di vita. Ed ecco quindi che, se manteniamo questo sguardo più ampio sulla vita umana, comprendiamo il messaggio della malattia: vero grido d’allarme lanciato dal corpo ogni volta che l’anima si allontana dal suo binario”.
Devo dire che in ambito psicologico l’appoggio sul modello medico (il medico della mente, la terapia, le malattie e la psicopatologia sono tutti termini propri della cultura medica che a me parlano abbastanza dell’invidia per una classe professionale dotata di potere sociale quando invece la classe psicologica non ha saputo ritagliarsi un ruolo differenziato, salvo singoli professionisti e professioniste) è quanto di più bizzarro ed efficace io possa trovare per alienare ulteriormente le persone. Quando invece il bisogno soggiacente è quello di ritrovare un’unità e un equilibrio, accanto alle capacità di ascoltarsi, di ascoltare e di comunicare. Ma bisogna saperlo.
Quest’estate, in vacanza in una assolata e ventosa regione, su un quotidiano locale ho trovato una rubrica che si intitola “Psychiatric help”, tenuta dal presidente dell’ordine degli psicologi della regione medesima. Ovvero il rappresentante degli psicologi che coordina anche le funzioni di promozione e tutela della professione su un territorio, promuove la confusione fra il professionismo medico e quello psicologico. Psiche origina dal greco ove indica il soffio vitale poi tradotto come anima. Un termine che adesso trovo svuotato di senso e di rispetto e riempito di tecniche da collezionare come gli attestati dei seminari nella sala d’aspetto dei dentisti.
Ora, le persone come te, Eugenio, sono mosche bianche che parlano una lingua strana (fisica quantistica, vibrazioni, angeli, uno di questi giorni ti si portano …), ma che arriva a toccare chi ha dubbi, chi non si fa tornare i conti, chi ha perso la strada e chi non l’ha mai avuta. Buon lavoro.
Fabrizio ha detto:
tanto per capirci, questo è un estratto dello psychiatric help: “I dati che mi offri sono assai pochi per suggerire degli interventi efficaci su una condizione che mi pare assai grave. Non vi sono studi né classificazioni di questo disturbo che fa parte dei disturbi ossessivo-compulsivi: pur essendo sempre più diffuso, è genericamente inquadrato nei disturbi “accumulatori compulsivi” .”
Ecco, quale spazio per la psiche intesa come anima in questo lavoro?
Ecco perché ti leggo!
Eugenio Scarabelli ha detto:
Caro Fabrizio, nell’attesa che un Angelo, uno di questi giorni “mi si porti….”, continuo a farmi venire dubbi, a cercare la strada e a sentire che la mia non è ancora completa. Sinceramente guardo con molta compassione i collezionisti di etichette di cui parli e condivido tutta la tua lettura. Al di la del velo forse, ma spero anche al di qua, ognuno avrà le proprie risposte. Intanto però…. io proseguo in ciò che sento la mia missione.
Grazie ancora e come sempre, per il tuo apprezzamento.