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A volte penso che l’essere umano rappresenti il più grande paradosso vivente. Dotato com’è del cervello maggiormente evoluto sul pianeta, in grado di coniugare emozioni e razionalità, sembra al contempo l’essere meno attento dell’intero mondo animale.
Gli esseri viventi che noi umani riteniamo meno evoluti, utilizzano in prevalenza l’istinto e non un pensiero organizzato. Nonostante ciò non abbiamo mai saputo di un leone che uccide solo per il gusto di farlo e senza avere fame. Ne abbiamo mai avuto notizia di un serpente (il cervello rettiliano è la forma più primitiva di sviluppo cerebrale) che manifesta preoccupazione, pensando se domani avrà ancora l’opportunità di mangiare trovando il topolino al momento giusto.
Volendo addirittura disturbare le Sacre Scritture Cristiane leggiamo in Mt 6,26-29: “26 Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, né mietono, né ammassano nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non contate voi forse più di loro? 27 E chi di voi, per quanto si dia da fare, può aggiungere un’ora sola alla sua vita? 28 E perché vi affannate per il vestito? Osservate come crescono i gigli del campo: non lavorano e non filano. 29 Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro.”
L’uomo però non sembra fidarsi di ciò che vede e sperimenta; e questa è già la prima grande défaillance, da parte di chi possiede la capacità di elaborazione naturale più sviluppata sul pianeta! E non considera tutte queste manifestazioni naturali attorno a lui. Per l’uomo l’unico parametro che sembra valere sembra essere la sicurezza che la realtà corrisponda esattamente al proprio pensiero; che la sua realtà insomma, vada esattamente come egli immagina dovrebbe andare e per questo, diventa intollerante.
Forse con qualche esempio mi posso spiegare meglio. Quante volte guidando la nostraauto non diamo la precedenza a chi in quel momento, magari anche a torto, ma si trova in difficoltà in una manovra? E soprattutto, quante volte non concediamo il diritto di passaggio proprio perché l’altro, in quel momento, “ha torto”? Non c’è dubbio che la guida deve prevedere il rispetto delle regole e che l’eccessiva tolleranza di questo mancato rispetto potrebbe comportare un rischio per tutti. Ma è possibile che la nostra mente (che non è un semplice “cervello”, ma qualcosa di molto più complesso e organizzato) non riesca in quel momento a mostrare una qualità più emotiva come la tolleranza?
Può essere che al cinema, trovando il nostro posto occupato da qualcun altro, non sappiamo porre in essere la tolleranza o anche l’indifferenza, ma ci facciamo invece sopraffare dalla paura che, a nostra volta, potremmo venire sfrattati se occupassimo un posto diverso da quello che sta scritto sul biglietto? Può essere infine che, in una piazza gremita da 150.000 persone, rischiamo di mandarci storta l’intera giornata perché non siamo nelle prime file come ci era stato annunciato, ma poco più indietro per quanto sempre in una posizione egualmente utile ai fini di ciò che siamo venuti a fare?
Trovo che queste come molte altre situazioni simili, rappresentino solo la nostra tendenza umana a complicarci la vita. A complicarla a noi ed ai nostri vicini di posto o compagni di strada. Penso che la nostra naturale tendenza a reagire piuttosto che accettare, faccia ogni volta precipitare le esperienze che viviamo ad un livello più basso inducendoci a perdere di vista il vero senso per cui le stiamo compiendo e ciò che possono insegnarci.
In ogni occasione nella quale ci spendiamo a complicare la realtà piuttosto che osservarne semplicemente la sua nuova forma, perdiamo l’occasione di cogliere nuovi significati. Se stiamo soltanto dietro ai nostri progetti, non potremo mai scoprire quali progetti il mondo ha per noi e così, pur rispettando magari l’orario prefissato o il posto prenotato, non saremo ancora veramente nel luogo giusto: ma proseguiremo a rendere più complicata la nostra esperienza di vita, allontanandoci dalla nostra strada e da tutti gli apprendimenti che essa comprende.
Fabrizio ha detto:
Rifletto ogni tanto sulla complicazione e sulla complessità. Un po’ di tempo fa stavo pensando di ideare un approccio alla complicazione della vita in un test a dendrogramma. Quanti rami e rametti ha la tua vita? Più rami ci sono, più é facile allontanarsi da se stessi e dagli altri, perdendo di vista l’essenza delle cose e adorando idoli da supermercato, come la competizione alla guida che tu citi, o “quel posto è mio” al cinema. In ambito psicologico una complicazione è la tendenza degli psicologi a fare scuole di formazione. Certo, la formazione dà lavoro a chi la fa. Fare un documento mi è costato dieci (10) file a tre diversi sportelli di una pubblica amministrazione. Chi ha ideato un sistema simile si è sicuramente sentito potente, ma quello che ne penso io sono intanto contumelie e poi anche un sano rifiuto e un senso di estraneità a un mondo che concepisce la burocrazia. Il test a dendrogramma ho preferito non svilupparlo pensando alla vanità tecnica della cosa: ho rivisto i visi tesi che conosco all’Università e mi sono detto che preferisco il deserto dove le parole che dici e che senti non sono un orpello, ma una necessità preziosa. Grazie ancora per le tue riflessioni.
Eugenio Scarabelli ha detto:
Caro Fabrizio,
credo che in parte tu abbia fatto bene a non procedere con il test a dendrogramma (tra l’ìaltro ammetto che prima di ora non avevo mai sentito parlare di questo tipo di reattivo…. ma del resto, tu per me sei sempre stato un Maestro!).
Credo che in parte tu abbia fato bene a non aggiungere “complicazione alle complicazioni” già presenti.
De resto però se tu non lo fai, il mondo perde un’occasione per riflettere sulla sua complicazione e questa…. inesorabilmente aumenta!
Allora si, concordo con il maggior valore del deserto in cui le parole non servono rispetto a questo vivere fatto spesso di sole parole ma, finché siamo qui non rinunciamo al tentativo di semplificare la complessità e rendere per noi e per tutti, il mondo un poco più semplice.
Sei sempre illuminante.
Grazie
Fabrizio ha detto:
ti faccio avere le idee sul test appena ho la forza di affrontarlo seriamente. I principi sono semplici e i modelli non troppo raffinati; quello che è nuovo per me è la necessità di uno strumento che rappresenti la complessità e, aiutando a visualizzarla, aiuti a semplificare, a ritrovare i rami essenziali, a sfrondare l’inutile, a potare lo sterile e a scegliere. Sicuramente le parole servono anche a semplificare. Ci sto pensando da un po’ e in una primo tentativo l’ho usato su di me. Risultato: quante cose inutili e quanto tempo sprecato.
Come vedi sono un maestro elementare con tendenza al bidello.
Un abbraccio dal Sud.